“Come faccio io a non piangere”

 



 

Un viaggio sentimentale nell’ultimo libro di Irene Battaglini e Vinicio Serino

 

Un’analisi complessa sull’Invidia, uno dei sette peccati capitali. Un percorso psicoantropologico, un confronto a due voci anche su come arte e scienza hanno interpretato questo sentimento

 

 

 C’è, nell’ultimo lavoro editoriale di Irene Battaglini e Vinicio Serino qualcosa di assai intrigante. Almeno per me. Anche se credo che oggettivamente il libro mantenga una forte tensione emotiva, una sorta di anima che incuriosisce il lettore e si espande oltre le pagine scritte. Un’onda lunga che chiamerei passione per le proprie idee, per gli studi, che declinerei in un insieme multiforme di interessi. Psicologici, antropologici, esistenziali, artistici, affettivi, educativi, relazionali. Da tempo, i due, uno antropologo, l’atra psicologa e psicoterapeuta, indagano i così detti sette peccati capitali. Non a caso anche il testo che ho appena finito di leggere sull’Invidia (Angelo Pontecorboli Editore, Firenze – 2021) si autodefinisce “Percorso psicoantropologico”.

 

Duccio di Buoninsegna, Pilato si lava le mani, Maestà del Duomo di Siena, Museo dell'Opera del Duomo, 1308-1311

La storia dei sette peccati capitali

Ricordiamoli velocemente i sette peccati: superbia, gola, avarizia, ira, lussuria, accidia e invidia. Chiamati anche vizi, hanno rappresentato per secoli i modi in cui l'uomo poteva cedere alle tentazioni del Maligno, perdendo la propria anima e condannandosi alla dannazione perpetua. Nella  Divina Commedia Dante colloca i colpevoli dei sette vizi capitali nell'alto Inferno (cerchi II-V) e li purifica nelle sette cornici del Purgatorio; inoltre la lussuria, la superbia e la cupidigia sono raffigurati nel canto I dell'Inferno sotto forma di bestie selvatiche, rispettivamente la lonza (vv. 31-43), il leone (vv. 44-48) e la lupa (vv. 49-60). Bestie che il sommo poeta incontra nella selva oscura all'inizio della sua avventura.

Una descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì, con la cifra stilistica che lo caratterizza,  gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.

L'elenco dei vizi fu quindi analizzato dal cristianesimo  antico ad opera dei primi monaci. La tristezza apparve come vizio a sé nel medioevo, successivamente accorpata come già effetto dell'accidia o dell'invidia. Stessa cosa accadde per la Vanagloria, accorpata successivamente nell'unico vizio della Superbia. Gli altri peccati sono gli stessi giunti a noi (ira, lussuria, avarizia, gola), mentre l'invidia venne aggiunta successivamente.

Nell'Età dei lumi la differenza tra vizi e virtù perse importanza, poiché anche i vizi, come le virtù, concorrerebbero allo sviluppo materiale (industriale, commerciale ed economico) della società. Dopo il periodo illuminista, i vizi appaiono ancora in alcune opere di Kant, che vede nel vizio un'espressione della tipologia umana o di una parte del carattere. Dall'Antropologia pragmatica di Kant, nell'Ottocento , sui sette peccati capitali sono stati scritti grandi trattati, tanto da diventare un argomento molto interessante e vasto, fino ai giorni nostri, tra filosofia morale, psicologia  umana, antropologia e teologia. 



Invidia e musica leggera, anzi leggerissima

Serino e Battaglini sono al terzo libro della serie. Hanno già scritto una introduzione e analizzato la Lussuria. Il volume che invece qui affrontiamo è quello relativo all’Invidia.

Partirò leggero, anzi leggerissimo, Colapesce e Dimartino  qui docent,   e lo farò da una canzone di Antonello Venditti dal titolo Amici Mai:

 

Questa sera non chiamarmi
no stasera devo uscire con lui
lo sai non è possibile
Io lo vorrei ma poi
mi viene voglia di piangere.
Certi amori non finiscono
fanno dei giri immensi
e poi ritornano
amori indivisibili
indissolubili, inseparabili
ma amici mai
per chi si cerca come noi
non è possibile …

La canzone è una finzione. Non si arrabbino i cultori di Antonello. Il protagonista finge di essere un uomo libero, emancipato, ma soffre come un cane per la fine di un amore. Per un amore che transita da lui ad un altro. Prova invidia per lui. E’ geloso di lei. Gelosia e invidia sono sentimenti speculari. Il primo è un modulo a tre. Il secondo un modulo a due.  La gelosia è un triangolo. L’invidia va da un punto all’altro. Entrambe possono essere definite come emozioni complesse di derivazione sociale. Vi sono ampie aree di sovrapposizione tra i due sentimenti, poiché ciò che risulta determinante per l’insorgere di queste emozioni è la percezione di un confronto sfavorevole in un campo rilevante (per l’individuo) che finisce per avere esiti negativi per l’autostima. Invidiare, essere gelosi.

Ci sono alcuni aspetti fisiologici, altri patologici. Il libro di Battaglini e Serino indaga, esplora, ricostruisce e accosta. Materie, scienza e arti si incrociano e sovrappongono, costruiscono il caleidoscopio di emozioni e risposte di cui necessitiamo, lasciando sempre aperte le porte delle soluzioni. Non ci sono dogmi, pareri definitivi, anche se la ricerca di gentilezza, reciprocità, generosità, buona speranza è insita nel ragionamento degli autori. 

E questo mi piace molto.

 

Renè Magritte, Les Amants, 1928, MoMa, New York

Invidia e arte

Nella parte bassa delle due pareti laterali della Cappella degli Scrovegni a Padova, Giotto ha disegnato le allegorie dei sette vizi capitali (Stultitia, Inconstantia, Ira, Iniusticia, Infidelitas, Invidia, Desperatio) contrapposte alle relative virtù (Prudencia, Fortitudo, Temperantia, Iusticia, Fides, Karitas, Spes). Di queste immagini parla anche Proust nel primo volume de "Alla ricerca del tempo perduto".  Ma molti altri pittori e musicisti, poeti e scrittori si sono esercitati sull’invidia. Il libro non rinuncia a cogliere queste contaminazioni. Non a caso l’illustrazione di copertina  è proprio il particolare di Giotto dedicato a questo peccato o vizio o sentimento negativo. Tutto il volume ripercorre, in particolare, la relazione fra pittura, gelosia e invidia. Da Renè Magritte a Pablo Picasso. Da Gustave Dorè al Beato Angelico. Da Agnolo Bronzino a Kees Van Dongen.

Ascoltiamoli, per un attimo, i due autori attraverso il loro Editore:

“ Scrivere dell’invidia corre il rischio di restare un mega-peccato capitale del tutto inadempiente: un peccato che si rispetti necessita di un certo pathos, di un buon grado di sofferenza,  di una tensione che preluda il godimento. E perché l’invidia, e la gelosia (sua fragile ancella del cuore, con poche speranze di raggiungere la virtù negletta dell’invidia, padrona della mente, primogenita e viscerale) dovrebbero offrire una qualche proibita soddisfazione, al punto di essere annoverate fra i canonici vizi?” Abbracciamo intanto con lo sguardo la gelosia nell’arte. Il rischio di scivolare nell’analisi critica di un’opera o di sottoporla ad una sorta di indagine psicoanalitica è abbastanza prevedibile: si tratta di due posizioni estreme, gelose, appunto, l’una dell’altra, in conflitto, eppure innamorate, si negano, si abbracciano, fanno all’amore, per poi distinguersi appena, si fa troppo stretto il “letto” della critica, o troppo devastante il dubbio inoculato dalla psicanalisi”.

Naturalmente, il rischio di girare in tondo alla psiche c’è. Come pure quello di trasformare pensieri elementari e pulsioni semplici in complesse critiche antropologiche. Anche di tirare dentro ogni quadro, ogni composizione musicale, ogni rigo poetico, molta letteratura scientifica in una specie di continuo frullatore dell’essere in cui il confronto fra mente e società si trasforma persino in occasione politica di destrutturazione di modelli educativi, storie e storia di culture e pensieri. Con questa maledetta paura di affrontare il potere che ci deriva dai guai del ‘900. Quasi che il potere sia per definizione malato, ingiusto, vecchio. Di volta in volta un nemico.

Serino e Battaglini accettano questa sfida. Si confrontano con vizi e peccati. Non innalzano nuovi tabù. In alcuni momenti mi sono apparsi come due cronisti che indagano alla ricerca della verità. Senza compromessi e rinunciando ad una presuntuosa neutralità. La loro competenza non è invasiva ma leggera.

 

Mario Fani, La contemplazione, Olio su tela, 2008

I due autori e il mio eccesso di confidenza

Irene Battaglini scrive come dipinge. Questo concetto secondo molti osservatori sarebbe  sbagliato. Si sostiene che pittura e scrittura sono due forme d’arte differenti. Certo, nella prima c’è un messaggio puramente visuale, nella seconda prevalentemente testuale. Per me, che riconosco Ezra Pound come  maestro,   vale la rottura con la tradizione poetica tardo romantica. Irene, entro in piena confidenza, scrive da imagista,  sostiene un linguaggio pulito, gentile, poetico, conciso e chiaro, basato proprio sulla precisione e l'immediatezza con cui si presentano le immagini. Anzi lei sovrappone immagini e scrittura. Ed è una bellezza leggerla. Così come è una bellezza soffermarsi davanti ad un suo quadro. Pura alchimia . Irene scrive come dipinge e dipinge sulla scrittura degli altri. Trasforma forme e colori in un evento emotivo ed empatico. La sua vena artistica merita di essere seguita. Calpestata dalle orme della riconoscenza.

Vinicio Serino, in conclusione della sua riflessione sull’Invidia, introduce il premio Nobel, Wolfang Pauli, un grande fisico, uno dei padri della meccanica quantistica. Uno che era considerato un menagramo. Molti si nascondevano al suo passaggio. Erano certi che  portasse male. Lui ci rideva anche sopra. Magari il ricamo ironico era dedicato a quanti lo deridevano ma, sotto sotto, lo invidiavano. Ma non è di questo che voglio scrivere. Bensì della sua teoria secondo la quale due elettroni in un atomo non possono avere tutti i numeri quantici uguali. Nulla è uguale, persino a se stesso. Tutto si muove e si modifica. Nel tempo, nello spazio, nella materia. Pauli, pensate, catalogava i fenomeni sensoriali, quelli percettivi, per intenderci, alle sue teorie di fisica quantistica. Il conflitto fra le sue parti razionali e irrazionali e la sincronicità della relazione spazio temporale furono oggetto di studio e confronto con Jung. Fisica quantistica e psicologia. Azione e reazione. Amore e gelosia. Successo e invidia. Realtà e percezione di quanto potrà accadere. Virtù e vizi. Pregi e peccati. Il tema è quello del coordinamento acausale. Mi spiego, State pensando ad una donna (o uomo) intensamente. Dopo qualche minuto ricevete una telefonata o quella persona si materializza al vostro fianco. Jung fa anche riferimento alla telepatia. Pauli entra in conflitto con la fisica tradizionale. Due elettroni in un atomo non possono avere tutti i numeri quantici uguali. 

 

Pablo Picasso, Madre e figlio, 1905

Odiarsi mai

Sentire, percepire, pensare, sognare, accarezzare, amare, perdersi e mai ritrovarsi. Oppure ritrovarsi dopo essersi persi. Vicini e irraggiungibili. Ma amici mai, per chi si cerca come noi:

 

Odiarsi mai
per chi si ama come noi
basta sorridere.
No, no non piangere
ma come faccio io a non piangere
tu per me sei sempre l'unica
straordinaria normalissima
vicina e irraggiungibile
inafferrabile incomprensibile.
Ma amici mai
per chi si cerca come noi
non è possibile
odiarsi mai
per chi si ama come …


Epicuro, Il fine ultimo della filosofia è raggiungere la felicità

 

Fasi transitorie e desiderio d’infinito.

C’è stato un momento dopo la caduta del monarca macedone Alessandro Magno nel quale l’epoca classica greca ha subito una transizione. Lo ricordo pensando alla gelosia, questa volta a quella chiamata “invidia sociale”. E dunque rimbalzerò ai nostri giorni e ai modelli di relazione e di comunicazione interpersonale e sociale che ci caratterizzano.

Convenzionalmente si fa riferimento al 320 a.c. .

Iniziò, allora, un periodo di sfaldatura dell’organizzazione sociale delle antiche città-stato elleniche. Vennero meno molti valori etici secolari. Sembrò che gli antichi vincoli ispirati alla collettività fossero persi per sempre. Nacquero relazioni civili meno forti.

Non voglio dire che oggi, nella nostra società occidentale, viviamo la stessa transizione. Ma certo, molti valori collettivi e religiosi, ideologici e di fede, valori secolari, sembrano evaporati.

I greci trovarono alcune risposte in una visione vitalista dell’esistenza. Un filosofo, Epicuro, seppe incanalare il malessere e i mutamenti culturali e intellettuali dell’universo ellenico.  Smascherò i timori che assalivano la gente, come la paura degli dei o del destino o il desiderio di ricchezze e oneri terreni. Fece sentire tutti più sereni nella ricerca di un’esistenza felice, liberi di poter godere dei piccoli piaceri della vita. La felicità del saper vivere. Mi viene in mente Hermann Usener, che ho citato nel mio libro dedicato a san Paolo “La tua vera eredità” (Universosud Editore, Potenza – 2018). Usener è stato un filologo classico e una delle grandi figure europee della storia delle religioni del diciannovesimo secolo. Propose l'idea, in qualche modo epicurea, di Dio attraverso le tappe del "dio momentaneo",  legato all'esperienza del fenomeno singolo e del "dio di categoria".

L’uomo di ieri come quello di oggi. Tutti alla ricerca della verità, della libertà, di una qualche forma di emancipazione. Dentro una lotta perpetua con i nostri vizi. L’invidia e la gelosia sociale, sono l’ultima tentazione maligna della nostra società e del suo modello competitivo, asentimentale. Ma nel ventaglio delle risposte ci sono soluzioni corte e soluzioni ampie. Orizzonti vicini ed orizzonti lunghi. Ha ragione Irene Battaglini: “Di fatto tutte le cose sono transitorie, nel mondo, ma l’uomo che ama ha bisogno disperatamente di proiettare il suo desiderio d’infinito, promettendo amore per l’eternità. La negazione della passionalità del cuore porta inevitabilmente all’invidia verso coloro che sanno sviluppare dipendenza, nostalgia, mitopoiesi (la capacità di inventare favole, sviluppare miti). Gli innamorati che negano di amarsi resteranno immobili, come statue di sale, negandosi quella dolce libertà di affermare la dipendenza dall’Altro, di esprimere il bisogno di vicinanza. Negando quindi, per estensione, il bisogno di Dio, di eterno, di ritornare al grembo dell’universo-mare che ci ha generato.”

 

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