L’ammìria:
quando il teatro diventa coscienza potentina

La compagnia La Pretoria al completo
a ricevere una vera e propria standing ovation
Tra risate, giudizi e parole antiche, la commedia di Teresa Tancredi
restituisce al teatro potentino la sua funzione più alta: raccontare l’anima di
una comunità, come faceva Eduardo, senza mai perdere leggerezza.
di Gianfranco Blasi
C’è nell’Ammìria qualcosa di estremamente
potentino. È questo il titolo, ed è anche la sintesi perfetta dell’ultima
commedia in vernacolo di Teresa Tancredi e della sua straordinaria compagnia,
che ha come logo la maschera di Sarachella, come nome “La Pretoria” e come capo
comico un’impareggiabile Maria Villani. Un’attrice capace di trascinare il
pubblico nel vortice dei suoi personaggi, lasciandolo oscillare fra risate e
applausi, restando in scena tanto come commara quanto come giudice: una
sorta di inviata speciale del pubblico nel cuore della commedia. Spettacolare.
L’ammìria, partiamo dalla grammatica italiana,
è un sostantivo femminile singolare, derivato dal latino invidia (da invidere,
“guardare male, guardare di sbieco”). Indica un sentimento di astio e
sofferenza per il bene altrui, che spinge a desiderare ciò che l’altro
possiede. È un termine che si declina come sostantivo comune e da cui derivano
verbi, aggettivi, avverbi.
Eppure, credetemi, in potentino l’ammìria è molto di più.
Nei luoghi più arcaici del mondo contadino potentino —
quello evocato dalla maschera di Sarachella, quello dei vicoli e dei sottani
del centro storico — l’ammìria è un sentimento dolce e amaro che cataloga le
relazioni sociali, distribuisce voti, assegna difetti e virtù. Si vive di
ammìria, si lotta per l’ammìria, si muore di ammìria.
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| Teresa Tancredi, anima e cuore del nuovo tetro in vernacolo potentino |
Non voglio fare paragoni esagerati, ma non posso
neppure sottrarmi a collocare questa commedia nel solco del teatro di Eduardo
De Filippo. Non tanto per affinità di temi, quanto per struttura morale.
Le famiglie che incrociano il palco, i personaggi che si scontrano e si
osservano, sono costruiti da Teresa Tancredi con una prospettiva che è insieme
critica e nostalgica, capace di attraversare epoche e generazioni.
C’è qualcosa di Natale in casa Cupiello in
questo guardarsi storto, in questo amore che ferisce e ferendosi si nega; e c’è
qualcosa de Il sindaco del rione Sanità in quella giustizia popolare
incarnata da chi, come Maria Villani, giudica, commenta, ammonisce, diventando
coscienza collettiva più che semplice personaggio. È teatro che ride, ma sa
esattamente di cosa ride.
“La Pretoria ha
portato in scena il sentimento più
antico e ambiguo della cultura potentina, trasformandolo in racconto teatrale,
memoria collettiva e identità”
L’analisi sociologica attraversa i due atti con
dialoghi fitti, tesi, drammatici ed esilaranti. Chi vuole sentirsi potentino,
chi dice di esserlo, chi ambisce ad esserlo, deve passare da qui. Da questo
teatro.
Mi corre l’obbligo di citare — con un plauso sincero —
tutte le attrici e gli attori, e in particolare “Gigin”, Stefano Fedeli, e
“Rusina”, Mariangela Caulo. Tengono il palco e i tempi della commedia senza mai
flettere in intensità e presenza. Fedeli è un mimo naturale, un comico che
potrebbe ambire anche a ruoli drammatici: il suo volto è una maschera della
potentinità. Stefano sarebbe un Sarachella perfetto. Complimenti.
Mariangela Caulo raccoglie l’eredità di Teresa
Tancredi, che vogliamo però rivedere anche in scena come attrice. Non era
facile. La responsabilità pesava. È stata una padrona di casa sul solco di
grandi attrici potentine del passato, come Melina Bavusi. Davvero brava.
Di Maria Villani ho già scritto. Aggiungo solo che le
sue parolacce, in scena, perdono ogni volgarità e diventano sigillo, icona,
cifra inconfondibile della comicità di questa maestra impareggiabile di
vernacolo.
Una parola la spendo in conclusione per “Maria
P’rron”. Ritrovare in scena, dopo tanti anni, la mia amica Maria Zotta — con
cui ho condiviso gli esordi e un recital memorabile (vi sussurro solo che
eravamo Adamo ed Eva) — mi commuove. E intanto mi diverte la sensualità
ostentata, quasi programmatica, del suo personaggio.
Anche la ricerca sul dialetto, sulla semantica, mi è
parsa più selettiva e consapevole. Il potentino arcaico e verace non è
folklore, ma lingua viva. Villani e Tancredi hanno analizzato le nostre
variazioni linguistiche e le hanno trasportate in scena. “Una lingua a pieno
titolo, non semplici varianti inferiori”, come ha scritto la professoressa
Giuliana Bruno.
Ed è proprio questa vitalità del dialetto e della cultura popolare che
ci rende fieri, da potentini, del lavoro teatrale di una visionaria come Teresa
Tancredi.
Grazie.



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