Il coraggio di dire popolo d'Israele. Sam Harris, Gaza e
l’ipocrisia del mondo occidentale
di Gianfranco Blasi
No, la mia non vuole
essere una provocazione. Sono serissimo. Mi appello all’articolo 21
della Costituzione italiana. Mi riferisco alla mia, vostra e nostra
libertà di opinione. L'Articolo
21, lo ricordo, sancisce la libertà di manifestare il proprio pensiero con la
parola, lo scritto e ogni altro mezzo, e il diritto di cronaca e di
satira.
Cito anche l’art. 19 che garantisce a tutti il diritto di professare liberamente
la propria fede religiosa, di farne propaganda e di esercitarne il culto,
individualmente o in gruppo, a patto che i riti non siano contrari al buon
costume. Questa libertà include il diritto di non credere, di associarsi e
di costruire luoghi di culto, ed è estesa a tutti, tutti, inclusi stranieri e apolidi.
Sto per proporvi il mio articolo mentre la flottiglia avanza,
mentre il conformismo culturale imperversa, il festival del cinema di Venezia
tira linee, mentre in tanti non vorrebbero le squadre di Israele nelle
manifestazioni sportive e mentre gli odiatori sono al lavoro nello stilare le
liste di proscrizione.
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D'Alema da Xi in Cina |
Sto per proporvi il mio articolo mentre Massimo D'Alema, ex premier italiano delle sinistre, è in Cina a rappresentare le sue idee politiche. D'Alema non è "rincretinito" come provano a farci credere. Non è ingenuo e non ha preso una cantonata. Anzi, vi dirò che da liberale non tradisco le mie idee se vi scrivo che rispetto più la coerenza del doppiogiochismo e dell'ipocrisia da salotto buono. D'Alema è semplicemente, adorabilmente comunista come i cinesi, come Xi, che non veste Armani ma Mao, come Putin ex funzionario del Kgb ed ex presidente dell' Fsb, come il fronte orientale che non fatica a riconoscersi nelle idee delle rivoluzioni socialiste, in quelle di Lenin, ecc.
Resto conscio, e vengo al punto, che in questo momento spira un vento antisemita, un odio profondo e radicato, alimentato da una furiosa propaganda che tende a buttar via il bambino con l’acqua sporca. Pensate al Giro ciclistico di Spagna, già bloccato in un paio di tappe perché lo sponsor di una delle squadre partecipanti è israeliano.
Io, semplicemente,
non ci sto.
Ricordo che l’avversione nei confronti dell'ebraismo
sta prendendo la forma paradossale ma drammatica di mania collettiva.
Ed eccoci.
Come chi segue i
movimenti culturali americani sa, Sam Harris non è un uomo di fede. Anzi, Samuel
Harris è il filosofo saggista e neuroscienziato
statunitense, esponente di spicco del nuovo ateismo, che ha
passato vent’anni a demolire le religioni, tutte, con la ferocia lucida del
razionalista. Ma il 7 ottobre 2023, dice lui, qualcosa si è rotto. Non solo per
l’orrore dell’attacco di Hamas a Israele, ma per la reazione che ne è seguita:
un’ondata di antisemitismo, negazionismo dell’Olocausto e giustificazionismo del terrorismo che, dalle piazze ai
social, ha invaso perfino ambienti che si dicono progressisti.
“La risposta globale
al 7 ottobre mi ha reso sionista”, scrive Harris. E non per appartenenza o per
simpatia, ma per etica: antisemitismo e negazione dell’Olocausto sono mali
talmente radicali da imporre la difesa di Israele anche senza altre ragioni.
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La cosiddetta "flottiglia" |
Il punto è che Harris
non si ferma qui. Per lui Gaza non è solo Gaza, e Hamas non è solo Hamas. È il
sintomo di un conflitto più ampio: quello tra le “società aperte” – che Karl Popper descriveva come comunità
capaci di pensare, criticare, correggere se stesse – e l’islam politico
militante. E qui arriva la frase che molti non vogliono sentire: “molte
dottrine islamiche, se prese alla lettera, sono incompatibili con i valori di
una società aperta”.
Apriti cielo. In
Occidente, basta dirlo per essere bollati come “islamofobi”. Harris risponde
che questo equivoco – scambiare la critica di idee per odio verso le persone –
è già una capitolazione. E snocciola dati: tra i cinquanta paesi più liberi del
mondo, nessuno ha una popolazione musulmana sopra il 10% (Cipro a parte); in
fondo alla classifica, quasi tutti sono a maggioranza musulmana. E non si
tratta di sola libertà, ma anche di diritti, a cominciare da quelli delle
donne, delle minoranze di genere, etniche e culturali.
Poi arriva la frase
più dura, quella che non si legge nei comunicati ufficiali dell’ONU: «Se i
palestinesi deponessero le armi, ci sarebbe la pace. Se lo facessero gli
israeliani, ci sarebbe un genocidio». Dentro questa asimmetria, sostiene
Harris, sta tutta la differenza morale.
È un’analisi che in
Europa – e in Italia – fa tremare molti polsi. Perché costringe a guardare il
jihadismo non come una “questione lontana” ma come un’ideologia che, se non
contrastata, mina i nostri stessi principi. Mina la nostra stessa coesistenza
pacifica. E qui Harris tocca il nervo scoperto delle nostre democrazie: la
tendenza a evitare ogni giudizio netto per paura di sembrare intolleranti,
anche quando dall’altra parte non c’è tolleranza ma un progetto dichiarato di
distruzione.
Ecco perché continuo
ad appellarmi all’art. 21 della Costituzione anche mentre scrivo.
Naturalmente Israele
ha i suoi fanatici, e il governo Netanyahu non è un manifesto di liberalismo. Quello che sta accadendo a Gaza ha da tempo superato i limiti della decenza e della sopportabilità civile e morale. Ma il paragone con Hamas non è tra imperfezioni e virtù: è tra una democrazia
assediata e un culto della morte. Saperlo riconoscere non significa rinunciare
alla critica verso Israele; significa non tradire il principio stesso su cui si
fondano le società aperte. Le nostre società liberali.
La domanda, alla
fine, è semplice e terribile allo stesso tempo: quanta verità siamo disposti a
sacrificare sull’altare della nostra tranquillità morale? Harris ha scelto di
non sacrificare nulla. E ci invita a fare lo stesso, sapendo che non c’è
neutralità possibile quando una delle due parti vuole la tua sparizione.
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