La
barbara uccisione di Roberto Ruffilli e il riformismo tradito
Oggi, a
distanza di quasi quarant’anni, quella lezione rimane inevasa. Il Paese
continua a oscillare tra antagonismo di sinistra, ondate populiste e nostalgie
ideologiche, incapace di imboccare con decisione la via di un riformismo
autentico, pragmatico, ma ambizioso. Ruffilli resta allora il simbolo di ciò
che l’Italia non è riuscita a diventare: una democrazia adulta, dove il
cittadino sceglie e la politica risponde.
Roberto Ruffilli con Ciriaco De Mita
In Italia il
riformismo è sempre stato una strada stretta, un sentiero fragile che non ha
mai davvero trovato spazio. O stritolato dalla radicalità antagonista, o
risucchiato dal trasformismo, raramente è riuscito a diventare cultura politica
maggioritaria. Voglio tornare su questo
tema nelle ore tormentate e così divisive che stiamo vivendo per non
dimenticare gli errori del passato. E lo faccio dando vigore alla memoria della
vicenda di Roberto Ruffilli, politologo e senatore democristiano assassinato dai
comunisti delle Brigate Rosse nel 1988. Un dramma che racconta bene la
sconfitta del riformismo.
Eppure
il riformismo in politica
è una semplice metodologia che, opponendosi sia alla rivoluzione sia al
conservatorismo, opera nelle istituzioni, al fine di modificare l'ordinamento
politico, economico e sociale esistente attraverso l'attuazione di organiche,
ma graduali riforme.
Ruffilli era giustappunto un riformista, un intellettuale mite, un uomo alieno da protagonismi, che aveva fatto della riflessione sulle istituzioni il cuore della sua ricerca accademica e politica. Per lui la democrazia non si difendeva con proclami, ma costruendo regole nuove, capaci di responsabilizzare i partiti e di restituire al cittadino il ruolo di arbitro vero del gioco politico. Non la delega in bianco, non l’eterna logica consociativa, ma l’alternanza tra coalizioni scelte dagli elettori: questa era la sua idea di riforma.
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Un dibattito iniziato nel '700 quello fra Illuminismo - riformismo e conservazione |
Era un
pensiero semplice, e per questo rivoluzionario: ridare al voto un significato
pieno, far sì che la scelta dell’elettore fosse vincolante per la formazione
del governo. Un progetto che rompeva gli equilibri di convenienza e che puntava
a superare l’immobilismo della Prima Repubblica. Ruffilli lo teorizzò in saggi
come Il
cittadino come arbitro, lo praticò come consigliere di Ciriaco De
Mita, lo portò in Parlamento con la coerenza dello studioso prestato alla
politica.
Le Brigate
Rosse-Partito comunista combattente (BR-PCC), il 16 aprile 1988 (proprio pochi
giorni dopo la nascita del nuovo governo presieduto da De Mita, che Ruffilli
aveva contribuito a creare), assassinarono Roberto Ruffilli. Appena rientrato
nella sua casa forlivese da un convegno in città, Ruffilli fu sorpreso dai
comunisti Stefano Minguzzi e Franco Grilli, che travestiti da postini suonarono
alla porta della sua abitazione con la scusa di recapitargli un pacco; entrati
nell'abitazione, lo condussero nel soggiorno, dove lo fecero inginocchiare
accanto al divano per poi ucciderlo con tre colpi alla nuca. Gli esami
balistici svelarono che con quella stessa arma si agì anche contro due giovani militanti missini Franco
Bigonzetti e Francesco Ciavatta, assassinati il 7 gennaio 1978 nella cosiddetta
strage di Acca Larentia; contro l'ex sindaco di Firenze Lando Conti nel 1986;
contro l'economista Ezio Tarantelli ucciso a Roma nel 1985. Dopo una telefonata
al quotidiano la Repubblica, nel giorno stesso dell'assassinio, alle 10.40 del
21 aprile fu ritrovato, in un bar di via Torre Argentina a Roma, un volantino
rivendicante l'uccisione, che esordiva così:
«Sabato
16 aprile un nucleo armato della nostra organizzazione ha giustiziato Roberto
Ruffilli, [...] uno dei migliori quadri politici della DC, l'uomo chiave del
rinnovamento, vero e proprio cervello politico del progetto demitiano, teso ad
aprire una nuova fase costituente, perno centrale del progetto di
riformulazione delle regole del gioco, all'interno della complessiva
rifunzionalizzazione dei poteri e degli apparati dello Stato. Ruffilli era
altresì l'uomo di punta che ha guidato in questi ultimi anni la strategia
democristiana sapendo concretamente ricucire, attraverso forzature e
mediazioni, tutto l'arco delle forze politiche intorno a questo progetto,
comprese le opposizioni istituzionali. Firmato: Brigate Rosse per la
costituzione del Partito Comunista Combattente»
La
sua uccisione – “giustiziato” dalle Brigate Rosse come “cervello politico del
progetto demitiano” – fu molto più che l’assassinio di un senatore. Fu il colpo
inferto a un’idea fragile: che l’Italia potesse cambiare davvero attraverso il
riformismo. Non con la violenza, non con il massimalismo, ma con la fatica
lenta delle regole e delle istituzioni.
Oggi, a
distanza di quasi quarant’anni, quella lezione rimane inevasa. Il Paese
continua a oscillare tra antagonismo di sinistra, ondate populiste e nostalgie
ideologiche, incapace di imboccare con decisione la via di un riformismo
autentico, pragmatico, ma ambizioso. Ruffilli resta allora il simbolo di ciò
che l’Italia non è riuscita a diventare: una democrazia adulta, dove il
cittadino sceglie e la politica risponde.
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La sede del Movimento Sociale ad Acca Larentia |
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