Occhio per occhio, dente per dente. Il nuovo alfabeto dell’odio politico

Dal delitto di Charlie Kirk negli Stati Uniti ai social italiani, il prezzo è un Paese incapace di parlarsi.


Charlie Kirk, il giovane attivista americano freddato mentre parlava in una università

 Non credo che l’odio politico che oggi incendia gli animi — e non solo quelli più estremi — sia un fenomeno passeggero. Vi scorgo qualcosa di più profondo, strutturale, quasi ineluttabile: un lento avvelenamento del tessuto sociale.

Sotto la superficie ci sono precondizioni che conosciamo: disuguaglianze economiche, disagio sociale, marginalità territoriali. Ma a queste si sommano sovrastrutture politiche e culturali che trasformano le differenze in barriere invalicabili. Mondi, generazioni, comunità che non comunicano più tra loro. Non semplici divergenze d’opinione, ma appartenenze tribali.


Giorgio Gaber

Una volta Giorgio Gaber poteva domandarsi ironicamente “cos’è la destra e cos’è la sinistra”, per ricordarci che le categorie ideologiche erano porose, attraversabili, persino intercambiabili nella vita quotidiana. Oggi quell’ironia è svanita: destra e sinistra non sono più idee, ma identità contrapposte, corazze che blindano e separano. Tribù, appunto, che si combattono, e che alla fine decidono di odiarsi.

“L’uomo è qualcosa che deve essere superato”, scriveva Friedrich Nietzsche.
Ma come possiamo “superarci” se restiamo prigionieri di frontiere mentali che ci definiscono contro l’altro?

La storia recente degli Stati Uniti ci mostra dove può condurre questa logica. L’omicidio di Chiarkie Kirk — un giovane ucciso freddamente da chi lo considerava un nemico politico — non è stato solo un crimine individuale, ma il sintomo di un odio normalizzato. Kirk è stato assassinato non per ciò che aveva fatto, ma per ciò che rappresentava agli occhi del suo killer: “l’altro”, il nemico, il simbolo di un mondo da cancellare. È la logica ancestrale del “noi” contro “loro” portata alle estreme conseguenze.


Il labirinto di Nietzsche. Pensare e vivere sono un esperimento


Anche in Italia, dobbiamo dircelo senza ipocrisie, sebbene in forme meno cruente che negli Usa, si respira lo stesso veleno. La polarizzazione trasforma ogni divergenza in un affronto personale. Il dissenso non è più confronto, ma scontro. La parola non serve più a capire, ma a colpire.

Me ne accorgo da quanto mi sta accadendo sui Social. Ogni opinione espressa viene travisata, c’è chi la deride e chi non tarda ad offendere.

Come ammoniva Hannah Arendt, l’odio nasce quando le persone diventano “superflue” agli occhi degli altri:
non interlocutori, ma ostacoli da rimuovere.


Hannan Arendt

E come ricordava Mahatma Gandhi, “occhio per occhio, e il mondo diventa cieco”.

Cieco al dolore degli altri, cieco alla complessità, cieco persino a sé stesso.

Se vogliamo invertire questa deriva, dobbiamo tornare a riconoscere l’altro come parte della stessa comunità ferita a cui apparteniamo. Ricucire fratture sociali invece di allargarle. Perché ogni volta che normalizziamo l’odio, apriamo la strada al prossimo gesto estremo — e un giorno potrebbe toccare a noi scoprire di essere “l’altro” agli occhi di qualcuno.

 

Non so se riusciremo mai a tornare a guardarci negli occhi senza prima cercare l’etichetta dell’altro, per capire da che parte sta. So però che se continueremo a ridurre ogni differenza a una minaccia, ci ritroveremo a vivere in un Paese dove nessuno ascolta più nessuno, e dove basterà un pretesto per trasformare un cittadino in un bersaglio.
Il rischio non è di avere più conflitto, ma di avere solo conflitto — e nient’altro.

La politica, per come l’ho praticata, studiata e amata, non dovrebbe alimentare questa fame d’odio: dovrebbe invece tentare di disinnescarla, restituendo alla parola il suo peso e alla diversità il suo valore. Perché alla fine l’odio non si vince con più odio, ma con il coraggio — oggi rivoluzionario — di restare umani anche quando l’altro ci sembra imperdonabile.


Il Mahatma Ghandi


 

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