Gaza, tra aiuti e propaganda: la lunga guerra della dipendenza


Hamas resta il punto di snodo. Si disarmerà, restituirà tutti i corpi degli ostaggi?


Per vent’anni la Striscia ha vissuto di assistenza internazionale. Poi la guerra, la fame usata come arma politica e la sfida di costruire un’economia che non dipenda solo dagli aiuti.

di Gianfranco Blasi

Come viveva la gente a Gaza prima del 7 ottobre di due anni fa? Prima della guerra, prima dell’intervento armato di Israele. C’era un’economia, anche minima? Come si sfamavano milioni di persone in una striscia di pochi chilometri quadrati?

La risposta è semplice, e non contraddittoria: Gaza viveva di aiuti. Aiuti umanitari, alimentari, sanitari, economici. Interventi divenuti strutturali, garantiti dall’Onu e da una rete di donatori internazionali — dall’Iran alla Lega Araba, dall’Unione Europea agli Stati Uniti.
Secondo diverse stime, in vent’anni sono affluiti oltre 45 miliardi di dollari: un flusso enorme, che però ha sostenuto soprattutto la sopravvivenza quotidiana, non lo sviluppo. Poco o nulla è stato investito in infrastrutture o attività produttive.


Hamas ha proliferato controllando gran parte degli aiuti umanitari


Hamas controllava questi aiuti? Non tutti, ma la maggior parte sì. Una quota delle risorse è stata dirottata verso gli armamenti — inclusi missili di media gittata — e verso il mantenimento delle proprie strutture politiche e militari. La popolazione è rimasta intrappolata in una povertà cronica, senza un tessuto socioeconomico capace di evolversi. Carretti, animali da traino, case fatiscenti e ospedali improvvisati hanno sempre raccontato più di mille statistiche.

Oggi, accanto ai razzi e alle diplomazie, un’altra arma domina il conflitto israelo-palestinese: la retorica. In particolare quella della “carestia deliberata” imputata a Israele, diventata parola d’ordine nei cortei e nei talk show. Fame come crimine di guerra, come strumento genocidario, come campo di battaglia morale. Ma quando il dolore diventa propaganda, la realtà si piega, si semplifica, si strumentalizza. Per capire Gaza oggi non bastano gli slogan: servono fatti.

Dopo l’annuncio della chiusura temporanea del valico di Rafah e della riduzione dei transiti umanitari finché Hamas non consegnerà i corpi degli ostaggi israeliani, è riesplosa l’ondata di accuse contro Gerusalemme. Anche la Croce Rossa ha riconosciuto le difficoltà logistiche nel recupero delle spoglie in molte aree distrutte. Israele, dal canto suo, vuole vederci chiaro: prima il ritorno dei corpi, poi la fine dell’intervento militare.


La piazza di Tel Aviv chiede la restituzione di tutti i suoi morti


E poi? Saranno altri paesi a dover decidere il futuro della Striscia. Non potrà essere ancora Hamas a gestirlo. Israele vigilerà affidandosi alla mediazione degli Stati Uniti. Servirà un processo politico sostenuto dai paesi arabi e aperto alla partecipazione internazionale. Ma il problema resta: milioni di persone stipate in pochi chilometri quadrati, senza un’economia autonoma. Vivere solo di aiuti non è più sostenibile.

Il governo israeliano respinge da sempre l’accusa di aver provocato una carestia, sostenendo che gli aiuti arrivano regolarmente e che sia Hamas a confiscarli o usarli per fini politici. E in effetti, dopo la firma del cessate il fuoco e l’avvio del processo di pace, migliaia di immagini circolate sui social mostrano una realtà più complessa: accanto a scene di disperazione e di code per gli aiuti, si vedono mercati affollati, bancarelle di frutta, donne e bambini che mangiano per strada, folle che celebrano la fine dei combattimenti.

Queste immagini non cancellano la sofferenza, ma ridimensionano l’idea di un collasso alimentare totale. La crisi c’è, ma non è uniforme: il nord, devastato dai bombardamenti, resta in emergenza; nel sud e in alcune aree centrali i mercati hanno ripreso a funzionare, pur tra povertà e prezzi altissimi. Ogni settimana, centinaia di camion passano i valichi e tonnellate di viveri vengono paracadutate dalle missioni umanitarie, anche italiane.


Un convoglio di aiuti umanitari


Il futuro di Gaza non potrà essere un eterno ritorno alla miseria assistita. Nessun piano di pace sarà credibile se non prevedrà un’economia locale autonoma, basata su lavoro, commercio e istruzione, non sulla dipendenza dagli aiuti.
Perché la fame — come la propaganda — può mobilitare le coscienze, ma non costruire il domani.

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