Il paradosso della sinistra e la forza silenziosa del governo


Elly Schlein, all'attacco della Meloni a testa bassa




L’opposizione agita spettri di regime e si divide tra populismi e rancori, la premier, invece, tesse una rete di alleanze istituzionali che tiene saldo il Paese nei palazzi che contano.

di Gianfranco Blasi

 

Mentre Elly Schlein continua ad attaccare Giorgia Meloni riproponendo lo stesso copione che per trent’anni ha segnato la stagione antiberlusconiana — il “pericolo di regime”, la crisi della democrazia, l’assenza di politiche sociali, il salario minimo da introdurre subito — la scena politica italiana sembra scivolare in una sorta di déjà-vu ideologico. Persino fatti di cronaca criminale, come l’intimidazione a un giornalista del servizio pubblico, vengono caricati di significati politici e trasformati in accuse indirette al governo, come se ogni episodio di violenza o tensione sociale dovesse ricondursi a Palazzo Chigi.

Nel frattempo, Maurizio Landini sembra aver smarrito la vocazione storica del sindacato, quella di mediare tra lavoro e impresa, di rappresentare istanze concrete e non solo rabbie diffuse. La Cgil, sempre più assimilabile a un clone del Movimento Cinque Stelle, appare oggi come un contenitore di rancori e risentimenti, più impegnata a contestare il governo che a proporre soluzioni per chi lavora davvero. L’idea di una sinistra riformista, capace di dialogare con l’economia reale, appare lontana quanto mai.


La solitudine della Appendino (M5S)


A completare il quadro, il caso interno al Movimento Cinque Stelle: Chiara Appendino, ex vicepresidente del partito e una delle poche voci critiche verso la linea di Giuseppe Conte, è stata sottoposta a un processo sommario, quasi claustrofobico, da parte dei suoi stessi colleghi parlamentari. Il messaggio è chiaro: nel M5S la dissidenza non è ammessa. Chi chiede un cambio di rotta viene silenziato, confinato ai margini, in nome di un unanimismo che nulla ha a che vedere con la democrazia interna.


L'equivoco da risolvere: il potere di Hamas


Sul piano internazionale, solo in Italia continua a consumarsi una paradossale forma di piazza antisraeliana, spesso mascherata da solidarietà verso il popolo palestinese. Le manifestazioni contro Israele — e talvolta apertamente “contro gli ebrei” — ignorano una verità scomoda: la nascita di uno Stato palestinese sarà possibile solo quando il radicalismo islamista di Hamas verrà estirpato, non da Israele, ma dal mondo arabo e dal consesso internazionale. Fino ad allora, ogni slogan anti-israeliano non farà che legittimare il fanatismo e indebolire le ragioni della pace.

E mentre tutto questo accade, Giorgia Meloni commette un errore: rispondere in prima persona alle provocazioni dei suoi avversari. Ha un partito, un gruppo parlamentare, portavoce, alleati, giornali e intellettuali di riferimento che potrebbero gestire la polemica quotidiana. Dovrebbe riservarsi un ruolo più alto, più istituzionale, quello di presidente del Consiglio di tutti gli italiani, non solo del proprio schieramento. È una questione di stile, ma anche di strategia: la forza di un leader si misura nella capacità di non scendere ogni volta nell’arena del battibecco.

Intanto, sul fronte mediorientale, la brutalità di Hamas continua a emergere in tutta la sua drammatica realtà. Dei venti ostaggi recentemente liberati, tutti erano uomini; le donne, invece, sono state seviziate, violentate, torturate e uccise. È l’ennesima conferma che il terrorismo islamista non tiene in ostaggio solo le vittime israeliane, ma lo stesso popolo palestinese, condannandolo a un futuro di dolore e isolamento.

Eppure, in questo scenario teso e confuso, il governo italiano ha portato a termine una manovra economica improntata al rigore dei conti e al contenimento del debito pubblico. Poche misure espansive, certo, ma un segnale di serietà e di affidabilità che non è passato inosservato né in Europa né nei mercati finanziari. Il sostegno di banche e assicurazioni, che hanno scelto di reinvestire parte dei loro utili nel sistema Paese, indica una fiducia che va oltre il consenso politico.


Draghi e Giogetti, un rapporto leale di stima che fa bene al paese


Dietro le quinte, alcuni equilibri istituzionali si sono rivelati determinanti: l’intesa tra il ministro Giancarlo Giorgetti e Mario Draghi sul fronte economico, quella tra il ministro Guido Crosetto e il presidente Mattarella sui temi della difesa e della coesione nazionale, e infine il dialogo costante tra Raffaele Fitto e Ursula von der Leyen per la gestione del PNRR. È questa rete di rapporti, più che gli slogan di piazza o le accuse di regime, a tenere in piedi la credibilità del governo e a garantire all’Italia un ruolo stabile nel panorama europeo.


Mattarella, quando serve alza il telefono e cerca Crosetto


Alla fine, mentre le opposizioni consumano le proprie energie in un teatro di polemiche e di slogan, l’esecutivo sembra aver trovato un suo equilibrio — fragile ma reale — con i cosiddetti “poteri forti” e con le istituzioni europee. E forse è proprio questo, oggi, il vero paradosso della politica italiana: chi grida alla crisi della democrazia, finisce per apparire sempre più lontano dalla realtà di un Paese che, tra mille difficoltà, cerca non solo di restare in piedi, ma anche di trovare un ruolo importante nello scenario internazionale.


Von der Leyen e Meloni, un rapporto che funziona nonostante FdI non abbia votato la tedesca


 


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