L’economia dell’assedio: Gaza tra aiuti, blocco e collasso demografico


Una cartina che rende l'idea delle proporzioni e del rapporto fra Stati e entità palestinese


L’80 % della popolazione dipende dagli aiuti internazionali. Ma la vera emergenza è strutturale: due milioni e mezzo di persone non possono vivere a tempo indeterminato in un lembo di territorio senza risorse


di Gianfranco Blasi

Le due crisi internazionali che oggi tengono il nostro mondo con il fiato sospeso — quella ucraina e quella mediorientale — hanno un tratto comune: sono guerre asimmetriche, combattute da uno Stato potente contro un avversario più debole, o, nel caso della Palestina, contro un’entità che Stato non è. Vale la pena interrogarsi sul modo in cui l’Italia, e più in generale l’Europa, guardano a questi due teatri. Iniziamo da Gaza; affronteremo il caso ucraino in un articolo a parte.

La Striscia di Gaza è una sottile regione costiera di appena 360 chilometri quadrati, ma ospita più di due milioni di persone (dato giugno 2025). Di queste, oltre 1,2 milioni sono rifugiati palestinesi registrati presso l’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione. I rifugiati palestinesi sono coloro che, durante la guerra arabo-israeliana del 1948 — la Nakba, “la catastrofe” — furono costretti a lasciare le proprie case nei territori che sarebbero poi divenuti lo Stato di Israele.


La devastazione a Gaza


A differenza di altre crisi migratorie, l’UNRWA considera rifugiati non solo i profughi originari, ma anche i loro discendenti. Così, dai 711 mila del 1950 si è arrivati a oltre cinque milioni di registrati nel 2015, di cui quasi un milione e mezzo vive oggi a Gaza. Per dare un’idea della densità, basti pensare che il Metapontino lucano copre quasi 800 chilometri quadrati e conta meno di centomila abitanti: Gaza è grande la metà, ma vi vive una popolazione più di venti volte superiore.

Un territorio così piccolo e sovraffollato, privo di risorse naturali significative, non può sostenere un’economia autonoma. Al netto di una modesta estrazione di pietra nella zona nord, Gaza vive essenzialmente di aiuti internazionali. L’UNCTAD stima che circa l’80 % della popolazione dipenda da questi aiuti. Nel 2022 i fondi internazionali ammontavano a 358 milioni di dollari, circa il 2 % del PIL locale, mentre solo gli Stati Uniti hanno stanziato 293 milioni di dollari nel 2023 e l’Unione Europea oltre 230 milioni di euro nel 2024, quasi tutti destinati a interventi umanitari. Dunque, Stati Uniti, Europa e Paesi Arabi sono stati, e in quest’ordine, i maggiori finanziatori degli aiuti.

Ma non basta. Le infrastrutture essenziali che erano già fatiscenti — acqua, elettricità, fognature — sono oggi gravemente danneggiate, e la disoccupazione supera il 45 %. Considerando che migliaia di palestinesi lavoravano soprattutto in Israele e che la produzione industriale e agricola è quasi inesistente, le esportazioni bloccate dai controlli ai valichi, le entrate fiscali ridotte al minimo. Secondo la UNCTAD, il PIL reale si è contratto del 24 % e quello pro capite del 26 %. D’altronde a controllare la Striscia non è più da tempo una qualsivoglia autorità palestinese, ma il gruppo di Hamas, considerato  terrorista dai paesi occidentali, Nato e Unione Europea in testa, la cui traduzione più corretta dall’italiano è “spirito combattente”. Questo vero e proprio grumo di potere, che ha potuto godere di alcune coperture internazionali, compreso un atteggiamento ambiguo dell’Onu (che ancora oggi non lo considera un gruppo terroristico), ha utilizzato una quota consistente di aiuti in armamenti, tenendo un rapporto stretto con l’Iran, il Qatar e con gli ambienti islamici più radicali e fondamentalisti.


Un plotone di guerriglieri di Hamas


Il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) stima che per ricostruire Gaza dopo due anni di guerra serviranno 70 miliardi di dollari, di cui 20 miliardi solo nei primi tre anni. Eppure, anche con l’arrivo di centinaia di camion di aiuti ogni giorno, le condizioni restano drammatiche: i controlli, i bombardamenti, il crollo delle infrastrutture e l’instabilità rendono difficilissima la distribuzione degli aiuti.

La verità è che Gaza non ha oggi una vera economia: vive di assistenza, di trasferimenti esterni e, nei periodi di tregua, di qualche scambio informale o lavoro precario. È un’economia sospesa, compressa tra il blocco imposto da Israele e l’autorità di Hamas, che esercita sul territorio un controllo politico e ideologico soffocante.

Per questo, ogni riflessione sul futuro della Striscia deve partire da due consapevolezze: la prima è che la densità demografica e l’assenza di un sistema produttivo rendono impossibile una ripresa senza un piano internazionale di lungo periodo; la seconda è che nessun piano di ricostruzione potrà avere successo finché Gaza resterà ostaggio di un potere che alimenta rancore e isolamento più che prospettiva e futuro. Vedremo se e come Hamas accetterà di disarmarsi e di consentire un cambiamento.


Serve un progetto condiviso per realizzare il sogno di "Due popoli, due stati"


Serve, in ogni caso, una visione pragmatica, capace di superare sia la logica dell’assedio sia quella della resistenza permanente. Senza un cambiamento politico interno e un serio impegno internazionale, la Striscia continuerà a essere — come da decenni — un lembo di terra in cui la guerra è più forte della vita.

E, soprattutto, occorre avere il coraggio di dire una verità spesso taciuta: due milioni e mezzo di persone non potranno vivere, nel lungo periodo, in un territorio di 360 chilometri quadrati, senza risorse, senza spazio e senza prospettive produttive. La questione di Gaza non è soltanto politica o militare: è anche, e forse prima di tutto, una questione demografica, e di sopravvivenza fisica.

Persino l’idea di “due popoli, due Stati”, spesso evocata senza una riflessione compiuta, deve essere ripensata come un progetto di coesistenza territoriale, capace di prevedere un uso condiviso, inclusivo e sostenibile delle risorse. Israele, che per decenni ha delegato alle Nazioni Unite la gestione degli aiuti umanitari, deve accettare l’idea di un piano più ampio, credibile e coinvolgente, che comprenda anche i Paesi arabi e le istituzioni internazionali. Per questo anche la seconda parte del cosiddetto “Accordo Trump” è una buona e pragmatica base di partenza.


La contrapposizione dura non paga, Israele deve accettare l'idea di uno stato palestinese


Se davvero non vogliamo altre Hamas, bisogna costruire una condizione umanitaria e politica complessiva, in cui la sopravvivenza non sia più il solo orizzonte possibile. Israele ha ottenuto (da tempo) terra e nazione; ai palestinesi, oggi, deve essere riconosciuto lo stesso, a partire dal diritto a una vita degna, in un territorio vivibile, tracciabile, sostenibile e con la possibilità di interagire con i paesi dell’area, compreso lo stesso Israele. Solo da qui può nascere una pace duratura.


Gli spazi geografici sono stretti, ma la diplomazia può trovare una soluzione condivisa


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