Italia, il paese che ha smesso di credere nei redditi: l’urgenza di una svolta




Abbiamo congelato stipendi e contrattazione, e ora siamo bloccati come Paese

di Gianfranco Blasi

Sono anni che denunciamo (sia sui social che sul mio blog) un dato semplice e imbarazzante: i redditi italiani sono crollati, e continuano a farlo mentre governi e classi dirigenti hanno finto e fingono che la questione non esista. Eppure è esattamente da qui che passa la salute economica – e democratica – del Paese.

Negli ultimi vent’anni, dall’inizio degli anni Duemila, l’Italia ha smarrito la propria bussola nella politica dei redditi, con una serie di scelte bipartisan che hanno congelato i salari, frenato la contrattazione e generato un impoverimento diffuso. In questo declino, una tappa cruciale è stato il 2011.


Mario Monti con Elsa Fornero


Il precedente Monti: il blocco dei contratti e il mito del rigore salvifico

Il governo Monti – sostenuto allora da un arco parlamentare larghissimo – bloccò i contratti pubblici, quasi che questa misura potesse diventare la chiave magica per sistemare i conti pubblici.
Non accadde. E non poteva accadere.

Perché quando si taglia o si congela il reddito del lavoro, ciò che si colpisce non è solo il singolo lavoratore, ma l’intero circuito economico:

  • cadono i consumi,
  • si riduce la domanda interna,
  • rallenta la produttività,
  • diminuisce la ricchezza complessiva del Paese.

Il risultato lo abbiamo visto: recessione, stagnazione, un Pil che precipita come non accadeva dal dopoguerra.

Quelle scelte erano presentate come un gesto di responsabilità; si sono rivelate una cura che ha ucciso il paziente.




Il precedente Tremonti: un copione già visto

E non è stato solo Monti. Già prima, a più riprese, Giulio Tremonti aveva congelato i contratti e “raffreddato” la contrattazione. La logica era sempre la stessa:
mettere ordine nei conti comprimendo i salari.

Ma un Paese in cui i salari stagnano è un Paese che si impoverisce, perde competitività, si infossa nel declino.
È esattamente ciò che è accaduto all’Italia dal 2001 in poi: mentre l’Europa cresceva, noi ci allontanavamo.

Il nodo centrale: i redditi non crescono, e senza redditi non c’è futuro

Oggi l’economia italiana è intrappolata in una spirale perversa: bassa produttività, bassi salari, scarsi investimenti, scarsa innovazione. Non si esce da questo circolo senza una politica dei redditi seria, strutturata, continuativa.

Sembra banale dirlo, eppure in Italia non lo è:
senza lavoro ben retribuito non esiste un’economia dinamica.

Che fare? Le misure urgenti

Una svolta va costruita subito, in tre direzioni:

1. Frenare la crescita della pressione fiscale sul lavoro

Ogni anno, in Italia, lavoratori e imprese vengono schiacciati da un carico fiscale che non ha paragoni in Europa.
Serve una riforma che impedisca aumenti automatici, che renda stabile e prevedibile il quadro fiscale.

2. Ridurre davvero il cuneo fiscale

Non servono bonus episodici o tagli temporanei.
Occorre un intervento strutturale, pluriennale, che redistribuisca risorse in modo permanente verso i salari.

3. Ripensare le detrazioni e riorientarle verso i redditi bassi e medi

L’Italia ha un sistema di detrazioni spesso opaco, inefficace, che non alleggerisce abbastanza chi guadagna poco.
La riforma deve essere semplice: più reddito disponibile nelle tasche delle famiglie.


Il carrello della spesa. Sempre più difficile da riempire


Il tempo è scaduto: o invertiamo la rotta, o restiamo un Paese povero

Da vent’anni l’Italia parla di crescita, ma rifiuta di affrontare il suo vero tallone d’Achille: il potere d’acquisto dei cittadini.

Abbiamo perso contatto con gli altri paesi europei perché siamo stati l’unico Paese a considerare il lavoro come il luogo naturale del sacrificio.
Ma un Paese che non investe sul lavoro è un Paese che non investe su se stesso.

È il momento – ora, non tra anni – di una scelta politica adulta, che riconosca l’evidenza:
i redditi sono la condizione per la crescita, non l’ostacolo.
Non si rilancia il Paese comprimendo chi produce e consuma, ma liberando energie, fiducia, prospettive.

Serve una mossa. Subito.
Perché il problema non è solo economico: è civico, sociale, democratico.
È la questione fondamentale del nostro tempo.

 

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