L’essenziale che ancora ci salva


Catherine Louise Birmingham, la mamma dei tre bambini nel bosco,
gestisce un canale YouTube e un sito. Lì promuove il suo libro e le sue attività


In un mondo fatto di regole e conformismo cinico la storia dei bambini nel bosco è lì a ricordarci chi siamo: quelli che, come nelle fiabe, illuminano il cammino anche quando la strada sembra svanire.

di Gianfranco Blasi

C’è qualcosa di profondamente stonato nella vicenda che ha colpito la famiglia che vive nei boschi sopra Vasto. Non parliamo di una situazione di abbandono, violenza o incuria. Non parliamo di bambini malnutriti o trascurati. Parliamo di una famiglia unita, culturalmente ricca, attenta all’educazione e alla serenità dei figli. Una famiglia che ha scelto uno stile di vita diverso, certo: più essenziale, più naturale, più lontano dal consumo e dalla frenesia urbana. Ma pienamente legittimo e, fino a prova contraria, perfettamente compatibile con la libertà educativa e con la legge italiana.

L’educazione parentale non nega le relazioni ma si apre ad altre forme di socializzazione. La vita non è riconducibile per forza ad una scuola di ballo o ad un corso d’inglese e neppure ad un marchio di sneakers da più di cento euro.

Secondo Homeschooling Europe, nel 2024 gli studenti homeschooler, che praticano l’educazione parentale, in Italia sono “oltre 15.000”.

Eppure questi genitori si sono ritrovati di fronte a una macchina burocratica  che, invece di ascoltare, comprendere e accompagnare, ha preferito esercitare la forma più invasiva di intervento possibile: l’allontanamento dei bambini. Una misura estrema, pensata per situazioni disperate, applicata qui come se bastasse non avere un allaccio all’acquedotto per trasformare un padre e una madre affettuosi in un pericolo per i propri figli.


Catherine, con i tre bambini


Il dispiegamento di forze – decine di carabinieri, assistenti sociali, ordini calati dall’alto con tempistiche improvvise – è l’immagine plastica di un sistema che non tollera ciò che non rientra nei suoi parametri. Che preferisce “normalizzare” invece di comprendere. Che scambia una scelta ecologica e consapevole per trascuratezza.

E qui sta il punto fondamentale: non è stato contestato alcun danno reale ai bambini. Nessuno ha messo in discussione il loro stato di salute, la qualità della loro alimentazione, la loro preparazione scolastica (che viene regolarmente certificata), la loro condizione emotiva o il loro legame con i genitori. Non c’è una sola prova che questi bambini vivessero in un contesto pericoloso. Ce n’è invece più d’una che vivessero in un contesto affettivo ricco, stimolante e profondamente sano.

L’unico “reato” commesso da questa famiglia è stato quello di non conformarsi alla modernità come qualcuno la pretende. La casa senza acqua corrente, il bagno a secco, il pannello solare, il cibo coltivato nell’orto: tutto questo, nella logica dei provvedimenti adottati, diventa improvvisamente indice di rischio invece che scelta consapevole. È un rovesciamento culturale pericoloso: si confonde il disagio con la diversità, la povertà con l’essenziale, l’alternativa con la minaccia.


Marito e moglie con uno dei loro cavalli


Il paradosso è che proprio chi dovrebbe tutelare i bambini si è reso responsabile della ferita più profonda: strapparli dal luogo in cui erano sereni, dal ritmo che conoscevano, dagli animali che curavano, dal bosco che era il loro mondo. Una decisione che ha prodotto sradicamento, ansia e paura in tre minori che erano, fino a pochi giorni fa, circondati da stabilità, amore e presenza familiare.

È difficile non vedere in tutto ciò un fallimento istituzionale. Un intervento sproporzionato, culturalmente miope e disancorato dalla realtà concreta di quei bambini. Un atto che non protegge, ma ferisce. Che non tutela, ma punisce. Che non ascolta, ma impone.

La magistratura avrebbe potuto scegliere la strada del dialogo, del monitoraggio, dell’accompagnamento. Avrebbe potuto chiedere miglioramenti, proporre soluzioni, verificare nel tempo. Ha invece preferito la via più traumatica: quella che unisce autoritarismo e superficialità, e che lascia segni profondi nelle biografie di chi non ha voce per difendersi.

In fondo, questa storia non parla solo di una famiglia. Parla di noi, della nostra capacità di accettare che esistano modi diversi di vivere, crescere, educare. Modi non pericolosi, solo non convenzionali. E parla di uno Stato che, invece di misurare il benessere con la qualità delle relazioni e della cura, lo riduce a un elenco di standard fisici e burocratici.

Se la libertà educativa e la libertà di scelta hanno ancora un senso nel nostro paese, questo caso lo metterà alla prova. E sarà bene ricordare che la tutela dei bambini non consiste nell’imporre loro un modello di vita standard, ma nel garantire che crescano amati, seguiti e protetti. E questo, nella casa nel bosco, c’era già.


Perché togliere la felicità ad una mamma?


E allora forse, alla fine,  è bene tornare a noi bambini. Quando bastava aprire un libro di fiabe perché il mondo diventasse un luogo più grande e più gentile. E come il Piccolo Principe che addomestica la volpe, anche noi possiamo ancora imparare che “l’essenziale è invisibile agli occhi”: lo si riconosce quando ci si ferma ad ascoltare, quando si lascia spazio alla meraviglia, quando si sceglie di guardare l’altro non per ciò che appare, ma per ciò che custodisce dentro.

Perché in fondo ogni storia — la nostra compresa — non è altro che la ricerca di un modo semplice, quasi infantile, per ritrovare quella piccola scintilla di bellezza che pensavamo perduta. E che invece, ostinata, ci aspetta ancora.

 

 

 

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