Se davvero Andrea Sempio non fosse estraneo ai fatti di Garlasco




Il caso Poggi e la lunga ombra sulla giustizia italiana

di Gianfranco Blasi

C’è un nome, un luogo, una data che continuano a pesare come un macigno sulla coscienza del Paese: Garlasco, 13 agosto 2007.
Quel giorno Chiara Poggi fu trovata senza vita nella casa di famiglia. Da allora, quasi vent’anni dopo, il suo omicidio continua a interrogare non solo la cronaca, ma la credibilità stessa della giustizia italiana.

Perché se c’è un caso che racconta la crisi del nostro sistema giudiziario, è proprio questo.
Un imputato condannato dopo essere stato assolto due volte. Un altro, rimasto ai margini per anni, poi risucchiato dalle indagini come in un vortice. Procure che si contraddicono, investigatori accusati di corruzione, fascicoli riaperti e richiusi. E intorno, un mare di parole: talk show, prime serate, paginate di giornali, colpevolisti e innocentisti a contendersi l’ultima verità.

Ma la verità, quella vera, sembra non essere mai arrivata.

Un caso che non finisce mai

La condanna definitiva di Alberto Stasi, nel 2015, avrebbe dovuto chiudere la vicenda. Eppure, a distanza di anni, il caso Garlasco non è mai davvero finito.
Ogni volta che si riapre una pista, che emerge un dettaglio, riaffiorano le stesse domande: siamo davvero sicuri che sia andata così?

Negli ultimi anni un nome è tornato con forza: Andrea Sempio, amico della famiglia Poggi, in un primo momento escluso da ogni coinvolgimento. Poi di nuovo sotto la lente.
Perché? Perché nel caos di quelle indagini, fra orari discordanti, scontrini sospetti e testimoni dimenticati, qualcosa non ha mai convinto del tutto.

 

Giuseppe, Andrea Sempio e l'ex procuratore aggiunto di Pavia, Mario Venditti

 Le ombre e le crepe

Uno scontrino del parcheggio di Vigevano. Dei “pizzini” ritrovati nella casa dei genitori di Sempio.
Intercettazioni che parlano, parcelle troppo alte, un’archiviazione frettolosa.
E poi un dettaglio che pesa come un macigno: il padre di Andrea, Giuseppe Sempio, oggi indagato per corruzione. Secondo l’accusa, la mazzetta sarebbe stata destinata all’ex procuratore di Pavia, Mario Venditti, lo stesso che chiese l’archiviazione del figlio.

È una storia che si allarga come una macchia d’inchiostro, che trascina dentro di sé le ombre di un sistema che fatica a fare chiarezza.
Chi ha coperto chi? Chi ha taciuto, chi ha chiuso gli occhi? E soprattutto: quanta fiducia possiamo ancora avere in un meccanismo che sembra incepparsi proprio quando serve di più?

La scienza che non salva

Sul piano tecnico, le indagini, un campo minato. Le orme delle scarpe rinvenute nella casa di via Pascoli furono uno dei pilastri dell’accusa contro Stasi. Poi arrivò il DNA, trovato sotto le unghie di Chiara Poggi: un frammento minimo, eppure sufficiente per accendere di nuovo il dubbio.
Una compatibilità, anche solo parziale, con il profilo genetico di Andrea Sempio.

Troppo poco per accusare, troppo per ignorare.
La scienza forense, che avrebbe dovuto portare chiarezza, ha aggiunto invece incertezza. Campioni deboli, analisi discordanti, perizie contro perizie. E adesso, una nuova perizia prevista per dicembre potrebbe riaprire il fronte, non tanto sul piano investigativo quanto su quello accusatorio e poi  morale: cosa abbiamo davvero imparato da Garlasco?

Il dubbio come bussola

Ogni volta che la giustizia inciampa, il dubbio diventa un dovere.
Non è solo il diritto di chiedere spiegazioni, è la condizione minima per credere nello Stato di diritto.
Perché se anche uno solo dei protagonisti di questa storia — Stasi, Sempio o chiunque altro — fosse innocente, allora l’intero sistema dovrebbe guardarsi allo specchio.

Garlasco, in fondo, non è più solo un luogo: è un simbolo.
Un promemoria di quanto fragile possa essere la verità quando la giustizia si piega alla fretta, alla pressione mediatica, al bisogno di un colpevole.


Il ministro della giustizia, Carlo Nordio


Una riforma che nasce dai suoi errori

È per questo che il caso Garlasco non riguarda soltanto una tragedia familiare: riguarda tutti noi.
Perché mostra cosa accade quando la giustizia smette di essere un cammino e diventa un’arena.
Quando i tribunali diventano luoghi di scontro invece che di ricerca, quando la verità si misura in titoli e non in prove.


Il tribunale di Pavia


Ecco perché la riforma della giustizia non è più una scelta tecnica o politica: è una necessità civile.
Perché ogni errore giudiziario, ogni indagine condotta male, ogni sentenza che lascia dietro di sé un sospetto, è una crepa nella fiducia collettiva.

Se davvero Andrea Sempio è estraneo ai fatti, il suo nome dovrà restare come un monito: nessuno dovrebbe rischiare di essere travolto da un’indagine imperfetta.
E se invece la verità fosse un’altra, la giustizia dovrà avere il coraggio di ammetterlo, di correggersi, di ricominciare.

Finché esiste un dubbio, la storia di Garlasco non può dirsi chiusa.
E finché non sapremo affrontarlo fino in fondo, non potremo dire di avere una giustizia degna di questo nome.


Nota dell’autore

Questo articolo non intende formulare accuse né mettere in discussione decisioni giudiziarie definitive.
L’obiettivo è riflettere, in chiave civile e culturale, sulle criticità emerse nel corso dell’inchiesta e del processo, e sul valore del dubbio come strumento di conoscenza e di tutela dello Stato di diritto.
Ogni riferimento a persone o circostanze ha esclusivamente finalità di analisi giornalistica e non implica giudizi di colpevolezza o responsabilità.

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