Quando la storia diventa bottega: perché Nichi Vendola
sbaglia a chiamare “queer” gli attori del cristianesimo
Perché questa smania creativa di trasformare la storia della fede cristiana in una piccola bottega del mainstreaming culturale?
di Gianfranco Blasi
C’è una tendenza curiosa – e intellettualmente pigra –
che attraversa una certa sinistra contemporanea: la rincorsa a reinterpretare
qualunque tradizione, anche la più radicata, alla luce del vocabolario
identitario del momento. Così può accadere che Nichi Vendola, con una di quelle
uscite che suonano colte e invece rivelano una sorprendente superficialità,
arrivi a definire “queer” gli attori principali del cristianesimo. Ricordiamo
che queer è un temine inglese che sta ad indicare
chi, in ambito sessuale, culturale o sociale, segue orientamenti o
comportamenti che non rientrano nelle definizioni di normalità codificate dalla
cultura prevalente.
E qui qualcosa
non torna. Anzi, si rompe.
Perché questa smania creativa di trasformare la storia
della fede cristiana in una piccola bottega del mainstreaming culturale?
Perché pretendere che tutto – millenni di spiritualità, figure fondative,
misteri teologici – venga forzato dentro una forma culturale preordinata,
decisa altrove, secondo le categorie della cultura woke dominante?
No, Vendola. Così proprio non funziona.
Personaggi
reali, non simboli da reinventare
Gli attori del cristianesimo – Gesù, Maria, gli
Apostoli – non sono personaggi da laboratorio, né figure indefinite da plasmare
secondo le mode teoriche del presente.
Sono considerati storici e reali, e non solo dai credenti.
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| Il famosissimo Gesù di Zeffirelli |
La loro esistenza viene attestata da fonti evangeliche
e non (Tacito, Giuseppe Flavio): testi diversi, certo, ma concordi nel
riconoscere una presenza reale nella Galilea e nella Giudea del I secolo. I
Vangeli canonici – Matteo, Marco, Luca e Giovanni – non sono biografie moderne,
ma nemmeno favole ideologiche: mescolano dati storici e teologia, come è
normale in ogni testo religioso fondativo.
Dunque no: non siamo davanti a simboli fluidi a cui si
può appiccicare, senza criterio, un’etichetta identitaria contemporanea.
La questione
del “genere”? Una forzatura culturale
Vendola parla di “queer”. Ma i personaggi evangelici
sono presentati come ciò che erano: uomini e donne in carne ed ossa, con
identità di genere riconoscibili. Gesù è un uomo. Maria è una donna. Gli apostoli
sono uomini. Tutto qui: lineare, semplice, storicamente coerente.
Ma questa linearità – che per secoli non ha turbato
nessuno – sembra oggi un bersaglio da decostruire.
E allora si tenta il salto: “Gesù trascende il genere, dunque è queer”.
Un sillogismo ardito, che però confonde i piani.
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| L'icona più famosa sulla Trinità del russo Andrej Rublev |
Dio trascende
il genere.
Gesù trascende la condizione umana.
Ma non per questo Dio e Gesù possono diventare simboli identitari contemporanei
di nuove tendenze.
Ecco perché sbaglia anche il parroco “no global” della provincia di Avellino,
Vitaliano Della Sala, che mette nel presepe figure asessuate o due madonne. Soprattutto
sbaglia a dimenticare il catechismo che ci ha formati (almeno quanti provano a
dichiararsi cristiani) e che lui dovrebbe difendere e valorizzare, catechismo
che sul principio non negoziabile dell’Immacolata Concezione difende il dogma
del magnifico mistero di fede che radica il cristianesimo nell’umanità e nel
corpo della donna.
Certo, il cristianesimo afferma da sempre che Dio è Spirito: e uno Spirito non è né maschio né femmina. Questo non annulla l’incarnazione di Cristo, né trasforma Maria in un archetipo fluido. Significa semplicemente che il mistero divino va oltre le nostre categorie biologiche. Non che si presti a essere arruolato per battaglie politiche o semantiche del XXI secolo.
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| L'Annunciazione del Beato Angelico |
La spiritualità
cristiana non è un esperimento di genere
La tradizione ascetica cristiana ha parlato, per
alcuni padri e poi per molte scelte personali, di castità, distacco, rinuncia
ai desideri carnali, non per negare la corporeità o cancellare l’identità
sessuata dell’essere umano.
Lo ha fatto per un’altra ragione: per indicare una strada di trascendenza,
non di fluidificazione.
Chi vive “in Cristo”, dicevano i Padri, orienta sé
stesso verso l’amore universale, verso la comunione con Dio, non verso il
superamento della maschilità o femminilità. L’ascesi cristiana è un superamento
degli istinti, non delle passioni, non delle identità biologiche.
È una tensione al divino, non un manifesto queer ante litteram.
Il rischio: una
colonizzazione culturale mascherata da interpretazione
La tentazione di reinterpretare il cristianesimo come
una forma di proto-queer è, alla fine, l’ennesima operazione di colonizzazione
culturale: prendere una tradizione altrui e piegarla per farne simbolo della
propria agenda.
Una forma di appropriazione spirituale, potremmo dire.
Si può discutere di tutto, certo. Ma non si può
manipolare la storia.
In conclusione
Gli attori del cristianesimo sono reali, storici,
incarnati.
La loro dimensione spirituale li porta oltre la mera fisicità, ma non li
trasforma in icone queer da esporre.
La fede cristiana parla di Dio come Spirito, di un amore che trascende le
categorie terrene, non di identità di genere da reinventare secondo criteri
contemporanei.
Qualunque credente – ma anche qualunque storico serio
– lo sa.
La spiritualità cristiana non è un esercizio di creatività ideologica.
È un percorso di verità, non un laboratorio di narrazioni woke.

Un Presepe tradizionale con i Magi




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