Giulio Tremonti: "L'Europa deve tornare alla storia. Non si convocano i summit per dedicare due righe al rapporto Russia - Ucraina e quattro pagine alla questione Gender. Non sta né in cielo né in terra"
Professor Giulio Tremonti, ex ministro e
presidente dell'Aspen Institute Italia, non è ancora chiaro dove sfocerà questa
crisi ucraina. Intanto ci spiega da dove nasce?
Secondo Benedetto Croce non esistono gli
incidenti della storia, ma solo l'incapacità di ricostruire i cambiamenti che
fanno la storia. Questo è un esercizio che occorre compiere non per
giustificare l'intervento russo - che è ingiustificabile - ma quantomeno per
capire. Più della richiesta di entrare nella Nato, il fattore che ha innescato
la crisi risale al 2014, quando l'Ucraina non stipula l'accordo doganale con la
Russia, ma avvia una trattativa per un accordo commerciale con l'Unione
Europea.
In quel momento si
innescarono tensioni che oggi sono degenerate in guerra aperta?
La sequenza dei fatti si è sviluppata su tre
fasi. La prima va dalla caduta del Muro alla fine degli anni Novanta, quando la
Russia precipita in una catastrofe sociale e morale, con la povertà dilagante e
le rapine degli oligarchi. Al tempo in Russia si usava dire: "Siamo una
Nigeria con la neve". In quel periodo, l'Occidente esportava a Mosca
democrazia e mercato.
In seguito?
Superata la crisi, Russia e Occidente si avvicinano. È la fase politica di Bush, di Berlusconi, della visione dell'Europa "dall'Atlantico agli Urali", quella di De Gaulle e di Wojtyla. La Russia entra nel G7 che diventa G8, nel cuore del sistema politico ed economico occidentale. Erano evidenti i limiti democratici di Mosca, ma si pensava potessero essere superati. Ricordo il gemellaggio allora in essere tra la Camera dei deputati italiana e la Duma russa: si chiamava "Grande convenzione. Il rapporto con la Russia va via via dissolvendosi. E l'Occidente, Europa compresa, inizia a favorire l'autonomo sviluppo democratico dell'Ucraina. Il Paese comincia a confrontarsi in forma dialettica e competitiva con la Russia, integrando un modello politico e sociale più liberale, non particolarmente gradito a Mosca.
Sta dicendo che la
classe dirigente occidentale non si era accorta di quanto stava accadendo tra
Ucraina e Russia?
Legga il communiqué finale del G7 del 13 giugno: ci sono due
piccoli paragrafi su Russia e Ucraina, e pagine intere sulla gender equality e
sulla palingenesi del mondo che dovrebbe rinnovarsi nella transizione digitale,
ambientale e sociale.
E il G20 di Roma?
Non è stato diverso, se non per il lancio delle monetine nella
fontana di Trevi. Non si erano accorti di essere in 18 invece di 20: guarda
caso, mancavano all'appello Russia e Cina. I rapporti tra Russia e Ucraina
diventano cruciali, ma l'impressione è che i Grandi della terra si presentino
come "turisti della storia". Nel 2016 scrissi il libro intitolato
Mundus furiosus: la storia, che si pensava fosse finita, oggi è tornata con il
carico degli interessi arretrati, e accompagnata dalla geografia.
Il risultato è che
oggi l'Europa appare divisa sulla risposta all'aggressione di Putin. Ai carri
armati russi si risponde con una trafila di riunioni.
Al principio l'Europa ebbe un'intensa configurazione politica:
pensiamo alla Comunità europea del carbone e dell'acciaio, all'Euratom, al Cern
di Ginevra e all'ipotesi della Comunità europea di difesa (Ced). Tutte queste
iniziative non vennero sviluppate, e l'Europa virò su una straordinaria
connotazione economica, terminata con la creazione dell'euro. Forse è venuto il
momento di passare dall'economia alla politica.
Come, in concreto?
Mi permetto di ricordare che nel 2003, sotto la presidenza
italiana del semestre europeo, la proposta del nostro governo era quella degli
eurobond, per finanziare infrastrutture e industria militare. La reazione fu
negativa in assoluto, mentre il cancelliere dello scacchiere, l'inglese Gordon
Brown, più intelligentemente rispose: questo è "nation building", no
grazie.
Insomma,
un'occasione perduta?
Gliela metto in italiano. Se oggi entri in un bar, e proponi
l'unione bancaria, ti guardano male. Se entri in un bar e proponi una difesa
comune europea sui confini, ti pagano da bere. Gli Usa a livello federale hanno
uniformato le ferrovie, l'Europa invece si è occupata di tutto, arrivando fino al
suicida confine del ridicolo.
Per esempio?
Penso alla mitica direttiva "toilet flushing", ritirata
poco prima della Brexit. Mirava a omologare i servizi sanitari delle abitazioni
europee, dai rubinetti dei lavandini alle dimensioni dei bidet. Di questioni
del genere si è occupata l'Europa in questi anni.
Andiamo in Italia.
Il prezzo dell'energia è alle stelle, scontiamo la dipendenza dal gas russo.
Come impatterà questa crisi sulla stabilità del governo e sull'economia?
Certamente quello che è successo in Ucraina unirà le forze
politiche, e ridurrà gli spazi per i conflitti interni. L'effetto politico
della guerra è già evidente: la stabilità del governo. Tuttavia, il teatro
politico non è fatto solo di stabilità governativa, ma anche dell'instabilità economica
e sociale sottostante.
Contro Mosca
partono sanzioni sempre più dure. Nel mirino il 70% delle banche e delle
società statali russe. Le sanzioni faranno più male a noi che a loro?
In realtà ben prima della guerra era emersa chiaramente una crisi
economica e sociale. Mi riferisco all'inflazione, alle torsioni e le tensioni
generate da un mercato uscito alterato dopo la pandemia. Vediamo gli effetti
del carovita sulle bollette, alla pompa di benzina, nel carrello della spesa.
Uno scenario reso ancor più critico dall'emergenza sanitaria. Insomma, la curva
dello sviluppo e del progresso, in Italia, pende verso il basso.
Il governo Draghi
sta affrontando queste sfide con cognizione di causa?
La pandemia è stata gestita con un notevole tasso di originalità
introdotta nella finanza pubblica, con nuove parole d'ordine: "Non è più
tempo di prendere ma di dare", "il debito pubblico è buono".
Oggi, terminata la pandemia, si pensa di poter continuare con la finanza
espansiva e gli scostamenti di bilancio. Ma ho l'impressione che questa tecnica
non sia più praticabile. Il debito è cresciuto enormemente, e le criticità
italiane sono presenti su scala più intensa anche in Germania: recessione,
inflazione al 7% e tassi a zero. Uno scenario critico. Ed è difficile pensare
che l'Italia possa uscirne con nuove e generose regole europee e il supporto
incondizionato della Bce.
Si annunciano nuovi
interventi per calmierare le bollette dell'energia: soltanto acqua fresca?
Il carovita era già più che evidente alla fine dell'anno scorso.
Quasi del tutto ignorato in finanziaria, è stato gestito in termini caotici,
con due successivi decreti legge. Con risultati che purtroppo non sembrano
sostanziali.
A Natale il premier
aveva detto che il grosso del lavoro sul Pnrr era stato fatto. La partita si
complica?
Nel 2020, con gli eurobond finalmente approvati, l'Europa si è
messa dal lato giusto della storia. Detto questo, il Pnrr, che già nel nome mi
ricorda i piani quinquennali sovietici, adesso rischia di impantanarsi. Una
grossa fetta se la mangeranno gli effetti dell'inflazione sui prezzi delle
materie prime. Bisognerà rifare gli appalti per aggiornare i prezzi schizzati
in alto. Saremo costretti a indebitarci non per favorire lo sviluppo e gli
investimenti, ma per mantenere gli approvvigionamenti di gas.
Il Pnrr senza le
riforme a sostegno diventa una scatola vuota?
Le riforme servono, a prescindere dal Pnrr. E comunque, a oggi,
queste riforme non le ho viste. Dalla giustizia al fisco, dalle pensioni alla
casa, è tutto rimasto sulla carta, dopo un anno di governo. Per dirla in inglese,
è tutto ancora "work in progress".
E questo confligge
con la narrazione governativa?
In questo momento mi trovo sul treno, e sui pannelli luminosi
stanno proiettando la pubblicità del governo sul Pnrr e sulla pubblica
amministrazione.
È uno spot che
alimenta false aspettative?
Più semplicemente, sono immagini irritanti e offensive. Sullo
schermo si vedono persone giovani, eleganti e ben vestite. È stucchevole,
mentre i cittadini comuni sono in difficoltà. Rispetto alle prospettive
economiche delle famiglie, vedo un totale distacco dalla realtà.
Intervista concessa al quotidiano La Verità
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